Con l’arrivo della pandemia, l’ospedale si trasforma completamente. Giovedì 19 marzo 2020 mi arriva la telefonata che cambierà la mia vita lavorativa e quello dei colleghi. Dovrò coordinare il reparto Covid Emergenza. In poco tempo abbiamo dovuto allestire il reparto di degenza che era sprovvisto di tutto il materiale e di tutti gli arredi. L’ avventura inizia quando sabato 21 marzo 2020 vengono accolti i malati di covid-19. Tutti con gravi insufficienze respiratorie e con quadri clinici severi. Il reparto di Covid Emergenza poteva contare fino ad un massimo di 39 posti letto di sub-intensiva. Il primo pomeriggio è stato agghiacciante, il corridoio era pieno di barelle di malati gravi, e il rumore degli allarmi delle apparecchiature era continuo.
I pazienti con le loro paure e crisi d’ansia non facevano che peggiorare la loro situazione a livello respiratorio. In quelle ore ho avuto immediatamente la percezione chiara di quello che stava accadendo. Avevo iniziato alle 7:00 senza mai fermarmi, andare in bagno, bere un po’ d’acqua o mangiare qualcosa, era praticamente impossibile. Alle ore 21:30 ero ancora in servizio, a digiuno da tutta la giornata mi sentivo svenire e una Dottoressa mi ha dato un cioccolatino per riprendermi. Insieme abbiamo combattuto ogni secondo stando attenti a non commettere qualche errore che poteva mettere a rischio la nostra salute, rischiando di infettarci. Per ore indossavamo una cuffia per capelli, la tuta e una mascherina strettissima, ben aderente al viso e una visiera. Ogni volta ci sembrava di non riuscire a respirare. Dovevamo scrivere il nostro nome perché non tutti ci conoscevamo. Ero esausta fisicamente, emotivamente e mentalmente perché avere a che fare con pazienti che ti chiedono aiuto, e vedere nei loro occhi la paura di morire è una cosa che ti rende impotente. Ho visto morire purtroppo, in questi 42 giorni, molti pazienti. Non avrei mai pensato di farcela a reggere questo ritmo di lavoro, ma soprattutto il dolore nel vedere che i pazienti non riuscivano nemmeno a parlare al telefono, con i loro cari, in quanto avevano sulla testa o il casco o la maschera; il dover rispondere alle telefonate dei famigliari, che chiedevano informazioni e i successivi incontri per la consegna degli effetti personali dei pazienti, che purtroppo non hanno superato la fase critica; e il toccare con mano lo strazio dei parenti davanti alla morte, e alla non possibilità di un ultimo saluto. Si è dato tutto quello che si poteva dare. Ed è andata avanti così per settimane. Abbiamo pianto e gioito per i successi perché vedere i sorrisi dei pazienti nella loro ripresa per noi è stata una vittoria. In questi 42 giorni ci siamo resi conto che oltre ad essere una grande squadra avevamo creato una sorta di famiglia allargata. Pur non conoscendoci, man mano che i malati si alzavano, facevamo foto e video. Rivedere queste immagini provoca delle forti emozioni. Gli occhi dei malati e di tutti quelli che hanno condiviso con me questa esperienza rimarranno per sempre nel mio cuore. Grazie anche a tutte quelle persone che al di fuori dell’ambiente lavorativo mi sono state vicine nei miei momenti di sconforto e mi hanno aiutato a non far prevalere la disperazione, dandomi la forza e il coraggio di andare avanti. Mai arrendersi.
GIUSY ARRESTA
With the arrival of the pandemic, the hospital is completely transformed. On Thursday, 19 March 2020, I get a phone call that will change my working life and that of my colleagues. I will have to coordinate the Covid Emergency Department. In a short time we had to set up the inpatient ward which was without all the material and all the furnishings. The adventure begins when on Saturday, March 21, 2020, covid-19 patients are admitted. All with severe respiratory inefficiencies and severe clinical pictures. The Covid Emergency ward could count up to a maximum of 39 sub-intensive beds. The early afternoon was chilling, the hallway was full of critically ill stretchers, and the noise of equipment alarms was continuous. Patients with their fears and anxiety crises only made their respiratory situation worse. During those hours I immediately had a clear perception of what was happening. I had started at 7:00 a.m. without ever stopping, going to the bathroom, drinking some water or eating something, it was practically impossible. At 9:30 pm I was still on duty, fasting all day I felt faint and a doctor gave me a chocolate to recover. Together we fought every second being careful not to make some mistake that could put our health at risk, risking to infect us. For hours we wore a hair cap, a jumpsuit and a very tight mask, well fitted to the face and a visor. Each time we felt like we couldn’t breathe. We had to write our name because we didn’t all know each other. I was exhausted physically, emotionally and mentally because dealing with patients who ask you for help, and seeing in their eyes the fear of dying is something that makes you powerless. I have unfortunately seen many patients die in these 42 days. I never thought I would be able to cope with this rhythm of work, but above all the pain of seeing that the patients could not even speak on the phone, with their loved ones, because they had on their head or helmet or mask; having to answer the phone calls of family members, who asked for information and the subsequent meetings for the delivery of the personal belongings of the patients, who unfortunately did not overcome the critical phase; and touching the heartbreak of the relatives in front of death, and the not possibility of a last goodbye. Everything that could be given was given. And it went on like that for weeks. We cried and rejoiced at the successes because seeing the smiles of the patients in their recovery was a victory for us. In these 42 days we have realized that in addition to being a great team had created a kind of extended family. Although we didn’t know each other, as the sick people got up, we took photos and videos. Seeing these images causes strong emotions. The eyes of the sick and all those who shared this experience with me will remain in my heart forever. Thanks also to all those people who, outside the working environment, have been close to me in my moments of discouragement and have helped me not to let the despair, giving me the strength and courage to move on. Never give up.
GIUSY JUST STOP